Su Satisfiction, Malaspina parla della scrittura in musica di Nicola Pisu

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Su Satisfiction, rivista di critica letteraria che propone inediti di grandi scrittori classici e contemporanei, recensioni e rubriche tenute dalle maggiori firme del panorama critico e narrativo italiano, ideata e diretta da Gian Paolo Serino, un pezzo di Oliviero Malaspina che parla della scrittura di Nicola Pisu.
Malaspina è un cantautore, scrittore, letterato e poeta pavese, tra le altre cose collaboratore di Fabrizio e Cristiano De André. Proprio con Fabrizio De André, Malaspina stava lavorando all’album che rimase incompiuto, ispirato alla notte, il cui tema principale era il fascino del buio, male estremo, e la cecità del potere.

Cantautori maggiori e minori sono stereotipi. Ogni cosa va presa in un contesto. Se guardassimo su scala generale chi oserebbe cantare dopo Carreras? Chi scriverebbe dopo i lirici greci? (O.Malaspina)

Prima di cominciare con le chiacchiere, permettimi di fare questa premessa lapidaria: è strano e imbarazzante che uno dei maggiori cantautori italiani, nei panni del divulgatore, racconti uno dei minori.
Detto questo, andiamo alle note biografiche, in cui sono disseminati sogni, delusioni e goffi tentativi di volo, o meglio starnazzi.

Non sono d’accordo, ma questo spazio è per farvi raccontare e non per imporvi domande. Parlaci di te.
Sono nato e tuttora vivo in un paese di provincia incastonato nel sud della Sardegna. Un amico scrittore che ben conosci, Giuseppe Cristaldi, trapiantatosi all’altro estremo dell’isola, ha descritto la Sardegna come il quanto rimane dopo l’eterno duello fra parole e assenza di parole. Con Giuseppe – poi torno a me – ci conoscemmo quando seppi che mi aveva citato nelle colonne di un giornale salentino: «Quanto mi emoziona quest’artista, quanti grovigli di salsedine, quanto andare silente». Era qualche anno fa e da allora ci guardiamo dai portellini di murata delle nostre imbarcazioni.
Le mie radici e la mia storia rappresentano ciò che sono oggi e, per chi ha il vizio di scrivere, costituiscono il bagaglio da cui attingere.
Quando scrivo, con la penna fra le dita e la chitarra sulla coscia, i versi sono influenzati inevitabilmente dalle pagine strappate dal mio diario, oltre che dai cantautori e gli scrittori che amo. A mano a mano che passano gli anni, i ricordi me li sento sempre più addosso, per quanto alterati a causa della nebbia che li restituisce inesatti. A riguardo vi sono splendide pagine di Bart D. Ehrman e Umberto Eco.
Dopo le prime esperienze musicali, mi sono addentrato nel campo della canzone d’autore, fino a restarci impantanato. Nel frattempo mi sono laureato in ingegneria, attività che, a differenza della musica, mi dà da vivere. A questo proposito, racconto un aneddoto: la prima volta che ci incontrammo di persona io, Max Manfredi e Federico Sirianni fu in un locale cagliaritano. Durante le prime battute di presentazione mi chiesero cosa facessi per vivere e risposi «L’ingegnere che vorrebbe fare il cantautore». Sorrisero e dissero che loro invece facevano i cantautori ma avrebbero voluto fare gli ingegneri. Poi, tra un bicchiere di vino e un cent’erbe, aprii con qualche mia canzone il loro “no-genova tour”.

Altri tuoi riferimenti?
Letteratura e poesia hanno spesso ispirato le mie canzoni, soprattutto hanno favorito un certo affinamento delle tecniche, innescando in me un processo di cura nella scelta delle parole. Il mio primo lavoro discografico è del 2008, Abacrasta e dintorni, ispirato a due opere di Salvatore Niffoi. A questo ne sono seguiti altri quattro. Strada facendo, ho avuto alcune collaborazioni importanti per la mia crescita artistica e umana, a partire da quella con Don Andrea Gallo, che mi reclutò per cantare De André.
Gli altri lavori cui accennavo sono Storie in forma di canzoneGirotondoCanzoni da solo e infine Canzoni sparse. Con quest’ultimo ho fatto il consuntivo, per capire a che punto fossi arrivato col proposito di fare il cantautore, senza comprenderlo. Non ho compiuto scelte particolari da ringraziare o da rimpiangere. Certo, qualche treno l’ho perso, ma per tutti i treni persi ci sono stati paesaggi che solamente andando piano, con i miei piedi, ho potuto ammirare.
Il mio rapporto con le esecuzioni dal vivo è sempre stato parsimonioso perché sono rarissimi gli spazi in cui poter proporre questo genere di canzoni. Spazi dove sia garantito un ascolto attento;. Spesso ci si trova a suonare in locali dove l’ascolto è svilito e, conseguentemente, anche il gusto di chi li frequenta. La musica è considerata un sottofondo generico per attutire il chiacchiericcio, questo per me è insopportabile. Come diceva Gianmaria Testa, in certi contesti, non essendo un urlatore, non riesco a cantare.
Per questi motivi e a causa dell’epoca pandemica, l’ultima esibizione risale al 2019, quando curai ed eseguii dal vivo le musiche per un reading di Marco Baliani in cartellone a un festival organizzato da Cada Die Teatro.
Da allora mi sono limitato a scrivere, ho evitato di intasare i social con inutili streaming e ho registrato alcune nuove canzoni, che forse un giorno andranno a finire in un nuovo disco. Ho anche ufficializzato un bootleg scaricabile dal mio sito. Il fatto è che al momento non trovo stimoli forti per buttarmi nel lavoro di produzione, anzi mi pare tempo sprecato, col pericolo di accumulare gratuitamente e masochisticamente nuove illusioni in forma di canzone.

Nelle tue canzoni qual è l’universo tematico, le tue radici?
Il mio universo tematico trova radici nella canzone d’autore, quella classica, e il mio orizzonte poetico si apre all’uomo, al nodo esistenziale che ne racconta i moti d’inquietudine, le ambizioni, le contraddizioni, le paure e i fallimenti. Immagini di triste realismo si mischiano a una dimensione immaginifica, onirica o ad atmosfere di ascendenza letteraria.
Credo che la canzone d’autore non sia un genere musicale. Però, per quanto mi sforzi nel cercare possibili definizioni, continuo a non trovarne. Restano alcuni elementi inconfutabili: il connubio speciale fra parole e note, il peso che il testo assume rispetto al bilanciamento con la musica, la parola come sostanza narrativa, comunicativa ed emotiva, che guarda di sottecchi la poesia.
Non ho le conoscenze per addentrarmi nell’estetica crociana e ampliare il ragionamento sull’autonomia dell’arte – la canzone d’autore è una forma d’arte – che non è subordinata al piacere o all’utile, né al vero, né al bene…
Mi accontenterei che si abolisse il termine cantautorato (orribile), che non significa niente, ma che fa pensare piuttosto al participio o a uno stufato.
Di certo, sono gli ascoltatori che possono indulgere nell’affibbiare etichette e, parafrasando Erri De Luca, mi piace pensare che certe canzoni siano un mezzo di evasione di massa.
Di discussioni simili, tassonomiche, mi è capitato di farne con alcuni amici cantautori e non, e ora, indirettamente, lo faccio con te. Pensa che ti sentii per la prima volta, come cantautore, a Nuoro, aprivi il concerto di Fabrizio De André, uno degli ultimi… Ma qui taccio e ti ringrazio per l’attenzione dedicata a questo piccolo cantautore non più definibile emergente, ma, più realisticamente, “incagliato”.

Noi di Satisfiction e, sono certo, chi leggerà, sappiamo che gli incagli ci sono per tutti in ogni forma. Ti e ci auguriamo una ripresa della musica d’arte come la tua.

Oliviero Malaspina

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