CARTOLINE DALLA SARDEGNA
Con la Sardegna, isola in cui sono nato, ho sempre avuto un legame strettissimo, come feto e placenta, ma spesso contraddistinto da sentimenti di amore e odio. Credo che il concetto stesso di isola si sposi bene con la mia indole abbastanza solitaria, e il silenzio, che fa da sottofondo alla vita, si concili perfettamente con la mia idea di benessere psico-fisico. Per questo, sono sempre rimasto cucito alla sua sottana, senza abbandonarla per più di qualche settimana. Tutto sommato, penso che questa mia idea di Sardegna sia frutto anche delle aspettative che in essa ho riposto fin da giovane, e che non abbia niente a che fare con questioni identitarie o etniche, ma innegabilmente esistite; oggi i caratteri del vivere sono ben conformati e amalgamati con quelli dello Stato che gli ha inglobati, plasmati, smussati, addomesticati, controllati. I sardi, che prima erano un popolo, dal mio punto di vista, oggi sono semplicemente gli abitanti dell’isola della Sardegna, cittadini italiani, poco più o poco meno.
La Sardegna, sa Sardìgna, è la seconda isola più estesa del mar Mediterraneo, dopo la Sicilia, sin dall’antichità attracco incessantemente frequentato da navigatori in cerca di materie prime e di nuovi traffici commerciali; un’isola con una storia millenaria, abitata da culture indigene e “giganti”, nel tempo influenzata e depredata dalle maggiori potenze coloniali antiche e moderne.
Un’isola al cui interno vivevano delle genti, che a un certo punto si diedero delle norme all’avanguardia rispetto ai popoli d’oltremare: la Carta de Logu è una raccolta di leggi in lingua sarda destinata ai Giudicati sardi, entità statuali autonome che ebbero potere in Sardegna fra il IX ed il XV secolo. Il giudicato d’Arborea è stato l’ultimo Stato sardo autoctono a essere ceduto a regnanti esterni all’isola, e le sue leggi sono rimaste in vigore fino a quando vennero sostituite dal Codice feliciano nel 1827; Eleonora fu la giudicessa.
La storia, che nelle scuole sarde si ostinano a ignorare, racconta che la rivoluzione francese del 1789 destò qualche influenza anche nelle masse popolari e contadine dell’isola schiacciate dal regime feudale. Così, si accesero i movimenti di fine secolo, dalla cacciata dei Piemontesi del 28 aprile 1794 alla rivoluzione nel 1796 capeggiata da Giovanni Maria Angioy. Quindi, nel 1794 si vide il popolo sardo contro il feudalesimo, contro i piemontesi, contro la classe dominante sarda filo-sabauda. Da lì in poi, qualcosa è cambiata nella coscienza popolare, forse irrimediabilmente.
Fu proprio durante la “rivoluzione sarda” di Giovanni Maria Angioy che sembra si cantasse l’inno Su patriottu sardu a sos feudatarios, detto anche Procurad’e moderare.
L’Innu, in lingua sarda logudorese, fu stampato clandestinamente in Corsica e diffuso in Sardegna, diventando il canto di guerra degli oppositori sardi, una sorta di Marsigliese sarda. Quel famoso poema politico di Frantziscu Innàtziu Mannu, magistrato dell’allora Regno di Sardegna, vicino alle posizioni politiche di Angioy, in questi anni la classe politica regionale stava ragionando se adottarlo come inno propriamente detto! Sono evidenti le enormi incongruenze e antinomie nella scelta dei simboli e dei veicoli dei significati della storia della Sardegna: è lampante che la classe politica attuale sia degna erede di coloro che oltre duecento anni fa tradirono la rivoluzione e accettarono il ruolo di delegati coloniali, pur di conservare i propri privilegi.
Forse, chi propone l’inno, non ha compreso i versi lapidari del canto e non sa che Cando si tenet su bentu est preziosu bentulare (quando si leva il vento, bisogna trebbiare).
L’insularità, la lingua, l’essere nato e cresciuto in questo sandalo di terra nel Mediterraneo occidentale, innegabilmente mi hanno forgiato e temprato. D’altra parte, ogni luogo, qualsiasi luogo, si imprime nella nostra coscienza attraverso il vissuto di ciascuno, facendoci illudere di appartenere a un posto piuttosto che a un altro: forse il principio stesso di identità è una forzatura.
Quando nelle canzoni mi capita di raccontare storie personali, l’ambientazione, la cornice, lo sfondo non possono che essere quelli a me noti, dove abito, respiro e cammino.
La lingua è indubbiamente strettamente connessa all’identità dell’uomo e sarebbe il caso che riservassimo alle lingue minoritarie, come per esempio il sardo, le stesse attenzioni che dedichiamo alle specie a rischio di estinzione, come il panda o il rinoceronte nero, perché — parafrasando Giulio Angioni — siamo quello che impariamo a essere. Però, confesso, solo di rado ho scritto in lingua sarda, anche se di Sardegna ne ho parlato tanto, sia di quella reale, messa a fuoco dal mio sguardo, sia di quella raccontata nei libri degli scrittori sardi, sia dei miti che popolano le sue leggende.
Alcune canzoni con oggetto Sardegna: “Issambenadu”, “Canzone della libera espressione”, “Canzone del rogo di Venere”, “Canzoni de su dispretziu”, “Piantu de mama”, “Piedi di terra”, “Sonos de attunzu” (poesia di Predu Mura), “Supramore”, “Con le ore delle stelle”, “Terra”, “Serra serra”, “Pane”, “Se il cielo vuole”, “Terra mea”, etc.
Ho lasciato fuori da questo elenco tutte quelle canzoni che il tema lo affrontano in maniera indiretta, per esempio ispirandosi alle pagine degli scrittori sardi. Tutto ciò, compresa l’attitudine di scrivere canzoni, ha determinato la mia identità.
E comunque, mi spaventa l’idea che questo concetto — identità — possa portarsi dietro gli embrioni del razzismo, che presuppone esistano razze biologicamente più forti e meritevoli di altre, basandosi appunto sul riconoscimento dell’identità. Ma questo è un altro discorso, che esula dalle questioni affrontate, che volevano essere specie di cartoline, cartoncini stampati, con immagini adulterate da un lato e la corrispondenza con i saluti dall’altra. Saludos.
Terra mia
affacciata sul mare
tra le torri e il cisto
dalla rosa il maestrale
Terra mia
che ti puoi incendiare
nel primo sole
dell’albeggiare
Terra mia
selci scheggiate
contrasti e ombre
violente mareggiate
Terra mia
civiltà nuragica
fenicia, romana
emorragica
Terra mia
giudicale, spagnola
umiliata sabauda
guinzaglio stretto in gola
Terra mia
tana di fate
maschere di pero
colline munte
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