L’INCONTRO CON ALBERTO CANTONE
Nel 2014, mentre ero in studio per le sessioni di registrazione di Girotondo, conobbi Alberto Cantone, cantautore trevigiano di lunga carriera, del quale conoscevo alcune canzoni, l’abilità con cui si destreggiava con i versi e quella voce profonda, brillante e ricca di frequenze del registro grave.
Alberto Cantone scrive canzoni da oltre trent’anni. Il suo primo lavoro ufficiale è del 2005, Angeli e ribelli, al quale seguirono altri gioielli come C’era un sogno per cappello, Il viandante e, nel 2018, Breve danzò il Novecento.
Se poi frugassimo nei suoi cassetti — come capita spesso con chi ha il vizio di scrivere canzoni — troveremmo tante perle di gioventù, alcune delle quali ho ascoltato con commozione. Ritrovare e condividere, con un po’ di autoindulgenza, quelle cassette conservate da venti o trent’anni, mi ha detto che per lui è un piccolo gioco di specchi del tempo.
Alberto Cantone compare in innumerevoli collaborazioni come autore o interprete. Per citarne alcune: Claudio Lolli, Gang, Goran Kuzminac, Ivan Della Mea, Gualtiero Bertelli, i Marmaja, Renzo Zenobi, etc.
Sarà forse per il suo sguardo laterale, attento agli ultimi e ai personaggi dimenticati, a quelli che erano presenti ma negli episodi minori, a quelli che erano stati esclusi, sarà per la sua umanità, che ci siamo trovati subito. Così, in questi anni, senza fare molto trambusto, abbiamo intrapreso delle piccole collaborazioni e annodato i fili di un rapporto umano e artistico.
Nel 2014 mi prestò la sua voce per “Il Gallo canta”, un cammeo, la chiusura e chiave di volta del mio lavoro discografico sull’indifferenza e l’emarginazione, Girotondo.
Qualche tempo dopo mi capitò di interpretare la sua incantevole “Dick e Aiace”, storia dell’amicizia fra due cani che si conoscevano bene già da molto tempo prima che fosse dato loro un nome.
Nel 2017 giunse una piacevole sorpresa, che si univa al timore dell’essere citati in tale ambito: Alberto Cantone, ospite dell’Università di Salisburgo per tenere una lezione dialogata e con chitarra agli studenti del Corso di Lingua e Letteratura italiana sulla “Poetica e il testo poetico nella forma canzone”, incluse il mio fra i nomi che citò a livello nazionale.
Scrivere canzoni è empatizzare con delle storie vestite di musica, che siano grandi o piccole vicende del mondo. È entrare nei personaggi, spesso frutto della fantasia, ma metaforicamente reali. Nelle canzoni si possono raccontare dettagli minuscoli rendendoli giganti: dipende dalla capacità letteraria dell’autore, ma anche dalla melodia musicale che sostiene il testo. Sta lì, ma ciò non basta, la possibilità per un cantautore di prendere per mano gli ascoltatori e questo Alberto Cantone lo sa fare benissimo.
Ahimè, la grande massa non ha accesso alla sua opera per trascuranze del sistema e del mercato discografico in via di disfacimento. Molte persone gioverebbero nel sentire le sue canzoni socialmente utili, che però — forse è questo il punto essenziale della questione — non sono merce. Parafrasando Pasolini, Cantone produce canzoni che non sono consumabili, quindi non definibili merce. E allora — cito lo stesso cantautore trevigiano —, quando avremo ucciso il prossimo poeta potremmo al massimo lavarci le mani nell’aurora: una società non più in grado di riconoscere i cantautori, figuriamoci se saprebbe individuare un nuovo poeta!
Il mio vizio più longevo è quello di scrivere canzoni, ma un altro, subentrato in età adulta, è quello di prendere nota di aneddoti e pensieri su una specie di diario. È molto più di un esercizio della memoria o di freddo narcisismo: rappresenta per me una finestra dischiusa sul passato, che mi permette di ricostruire incontri come questi, di cui vado fiero.
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