LA MUSICA AI TEMPI DEL COVID-19
“Nell’immediato dopoguerra c’era una voglia di ballare che faceva luce”.
(F.Guccini, Dizionario delle cose perdute)
I settori del teatro e della musica, che in generale rientrano nella categoria cultura, saranno gli ultimi a riaprire i battenti in questo momento difficile a causa del Covid-19, dove tutte le categorie dei lavoratori sono in difficoltà. Quegli stessi settori, non dimentichiamolo, sono anche stati i primi a fermarsi, ad abbassare le saracinesche, o meglio, a calare i sipari.
Spettacolo, teatro, musica non sono cose superflue o inutili, come spesso si dice. Sono invece elementi dei quali l’umanità non può fare a meno: è attraverso la musica che, se ci facciamo caso, si riempiono tutti i momenti della vita, dalle suonerie dei telefonini alle sigle dei telegiornali, da quella delle pubblicità a quella che mandano le radio, dai dischi che compriamo ai concerti che sogniamo di vedere, da quella d’intrattenimento a quella che ci fa piangere, ridere, emozionare, sognare, sperare, arrendere, lottare, che crea empatia e solidarietà, ribellione o infonde rilassatezza.
Oggi che siamo esseri impauriti da una particella unicellulare, abbiamo fatto ricorso proprio alla musica, alle canzoni cantate a squarcia gola dai balconi di casa, con funzione esorcizzante, cerimoniale e di collante fra persone che si sentono sole e indifese. Per certi versi, quelle esternazioni ricordano la danza della pioggia praticata dagli uomini per provocare la pioggia, che si praticava in varie culture, dall’Antico Egitto fino a quelle di alcune tribù dei Nativi americani.
La musica non è un’attività umana secondaria, della quale si può fare a meno: serve alla vita, è cibo e ristoro per l’anima.
Basti pensare ai grandi compositori del passato, a Mozart, alla musica sacra, al jazz che creava conforto agli schiavi afroamericani delle piantagioni del sud America, alle colonne sonore dei film, ai Beatles, a Dylan, ai canti nei campi allagati delle Mondine, a Morricone, etc.
Quasi tutte le culture preletterarie svilupparono sistemi musicali nei luoghi in cui vivevano. La musica è un fenomeno umano nato per scopi sociali ben precisi e, appena l’uomo scoprì la possibilità di produrre rumori nel semplice atto di sbattere delle ossa contro delle pietre, la introdusse nella sua vita. Ciò che ora chiamiamo musica e spesso consideriamo un’attività umana minore, ha radici antichissime. Passa attraverso l’evoluzione e la storia del genere umano, quando attraverso meccanismi sempre più complessi gli hanno consentito di trasformare il rumore in suono, finché le melodie primordiali si sono evolute assieme all’uomo stesso. La musica è un’impronta di ciò che oggi siamo ed è un’attività essenziale.
Certo, non possiamo ignorare come, secondo tanti, essa sia diventata negli ultimi anni un mero accompagnamento, perdendo di fatto il proprio valore perché è disponibile gratis, in quantità massiccia online, ma questo è un altro aspetto, che esula dalle presenti riflessioni.
Oltre al fattore spirituale ed emozionale sarebbe opportuno che ci si rendesse conto di quante persone lavorino nell’indotto del settore musicale, dai tecnici alla manovalanza; per non parlare della macchina dello spettacolo nella sua interezza (ingegneri del suono, architetti delle luci, registi, macchinisti, montatori, autisti, fotografi, grafici, scenografi, assistenti, ponteggiatori, operai, uffici stampa, scrittori, giornalisti, critici, sceneggiatori, coreografi, insegnanti, manager, liutai, agenti, discografici, direttori, fabbriche di dischi, negozianti di strumenti musicali, associazioni, truccatori, teatri, music club, festival, etc.).
A seconda dell’importanza dell’artista che si considera ci stanno dietro varie attività e figure a esse dedicate, però, a dire il vero, anche gli artisti cosiddetti minori, non conosciuti dal grande pubblico, quelli non ‘mainstream’, che spesso vivacchiano della loro arte sbattendosi nei locali e autoproducendosi, pure loro hanno motivo di esistere e di vivere. Ci sono migliaia di musicisti che sopravvivono con i loro piccoli concerti, che fanno un lavoro non riconosciuto come professione, spesso deriso, ma che dà loro da mangiare.
Come scrive Marco Baliani, il potere di qualsiasi tipo e sostanza si guarda bene dal favorire questa possibilità connaturata a qualsiasi essere umano — la creatività —, vuole cittadini di altro tipo, da un po’ di tempo neanche più cittadini ma consumatori. La creatività, dice ancora Baliani, non deriva, come facilmente si crede, da un qualche talento innato, è un allenamento. E tanto è l’allenamento, l’esercizio e l’impegno che qualunque musicista ripone nello studio dello strumento, in quella passione chiamata musica e nella scrittura delle sue opere, grandi o piccole che siano.
Ora che questa pandemia ci ha fatto scoprire quanto possa essere il tempo a nostra disposizione, che i creativi potrebbero dedicarsi alle loro attività senza altri affanni, quelli si ritrovano a elemosinare indennità di sussistenza, in un Paese che, come scrive Paolo Fresu, è dilaniato dall’odio e dall’ignoranza, oltre che dal Covid-19. Molti colleghi si arrangiano come possono, con dirette streaming dei loro concerti in quarantena, associandovi spesso piccole raccolte fondi da dividere a metà con gli ospedali impegnati nella cura, ma che trovano un significato soprattutto per non farsi dimenticare, per dire «ci siamo anche noi». La mia allergia alle esternazioni di gruppo è nota, ma questo non significa che non sia solidale con i miei colleghi, soprattutto con quelli minori, però allo stesso tempo do credito pure a musicisti professionisti che ribadiscono come mettere in rete concertini casalinghi dia adito, anche involontariamente, alla sensazione, già troppo diffusa in Italia, che quello del musicista (del cantautore e del creativo) non sia un vero lavoro, tanto meno ora, ai tempi del Covid-19.
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