GINO STRADA
“Io non sono pacifista. Io sono contro la guerra. Se uno di noi, uno qualsiasi di noi esseri umani, sta in questo momento soffrendo come un cane, è malato o ha fame, è cosa che ci riguarda tutti. Ci deve riguardare tutti, perché ignorare la sofferenza di un uomo è sempre un atto di violenza, e tra i più vigliacchi.”
(Gino Strada)
Pappagalli verdi di Gino Strada è stato il libro che mi forgiò, insieme a un po’ di canzoni.
Lo lessi nel 1999, anno di pubblicazione, quando di Emergency sapevo ancora poco: un’associazione umanitaria che si occupava di curare le vittime delle mine antiuomo sparse nel pianeta, molte delle quali di produzione italiana.
Qualche anno prima fu sorprendente vedere Fabrizio De André mostrare la spilletta Emergency sul palco a sorpresa nel Bastione di Saint Remy a Cagliari.
Nemmeno dopo tanto, scoprii che fu Liliana Sirca di Milis, la prima volontaria sarda di Emergency, a convincere De André affinché promuovesse le attività dell’associazione in occasione del tour Anime salve. Con Liliana saremmo diventati buoni amici. Stessa cosa avvenne fra Gino Strada, Teresa Sarti, Fabrizio De André e Dori Ghezzi.
Pappagalli verdi cristallizzò i miei principi allora acerbi e mi insegnò a credere in ciò cui oggi credo. Conoscere di persona Gino Strada e lavorare per lui è stato un privilegio, ma è l’eredità che mi ha lasciato che ne custodirà il ricordo, un ricordo fatto di azioni, parole, scazzi e qualche risata. Mi è anche capitato di trascorre qualche ora di festosa condivisione insieme a lui e a sua moglie Teresa Sarti. Ricordo quando fece un accostamento fra la pecora in cappotto, che gli facemmo assaggiare in Sardegna, e un piatto tradizionale dell’Afghanistan. Dopo qualche bicchiere di vino e alcune battute sarcastiche, i suoi occhi tornavano ad assentarsi e a concentrarsi, come se d’improvviso l’orizzonte che aveva di fronte mutasse per risbatterlo nel cuore della guerra. Con essa aveva un legame umano ancor prima che umanitario, per quanto la guerra non avesse niente a che fare con l’umanità a cui lui ambiva. Grazie a Gino Strada e a Emergency si aprì la mia mente, mi gettai nella rete dei volontari sparsi in tutta Italia. Quell’esperienza costituisce un bagaglio che mi porterò dietro per il resto di questo viaggio chiamato vita. Grazie a lui so che il dire deve essere sempre la conseguenza del fare.
Per una decina d’anni ‘smisi’ di fare il cantautore, pur continuando a scrivere canzoni, dedicando tutto il mio tempo, non solo quello libero, alla promozione di quei valori che Emergency andava a costruire sul campo, e a cercare di racimolare qualche soldo perché i progetti, embrionalmente delle mere utopie, diventassero realtà.
L’idea stessa di un’organizzazione come quella che Gino Strada fondò nel 1994 sembrava un’utopia, eppure da allora ha curato bene e gratuitamente oltre 11 milioni di persone. Fin dall’inizio della sua storia, prima di dire ciò che fa, di denunciare le ingiustizie e le diseguaglianze, Emergency le combatte in loco, le cura, attutisce il dolore che altri creano. Una vera e propria rivoluzione!
Credo che un po’ si indignerebbe ora che tanta retorica, ipocrisia e falsa commozione si scatenano a livello mediatico e istituzionale: Gino Strada era un uomo impastato di quella tempra che lo rendeva indigesto ai potenti. E non era una questione esclusivamente ideologica: già all’indomani dell’inizio della guerra al terrorismo — così si giustificava l’aggressione all’Afghanistan scatenata dagli USA dopo l’11 settembre —, chi come lui “si opponeva alla partecipazione dell’Italia alla missione militare, contraria alla Costituzione oltre che a qualunque logica, veniva accusato pubblicamente di essere un traditore dell’Occidente, un amico dei terroristi, un’anima bella nel migliore dei casi.” I risultati di quella guerra, l’ennesima combattuta in territorio afghano — vestita di giustizialismo ipocrita, ma che in realtà nascondeva l’ambizione di controllare petrolio, futuri oleodotti e gasdotti dall’Asia centrale fino al mare —, sono sotto gli occhi di tutti, come ha scritto lo stesso Gino Strada nel suo ultimo articolo, pubblicato proprio oggi su La Stampa: Così ho visto morire Kabul.
Sarebbe inutile abbozzare inutili agiografie, d’altronde adesso si dice tanto della sua storia e dimostrano vicinanza perfino molti dei suoi detrattori, specialmente provenienti dai meandri delle istituzioni, gli stessi che partecipano a creare quel dolore che Gino Strada provava ad alleviare. Lui aveva fondamentalmente due idee fisse che lo facevano passare per folle e lo ponevano in contrasto con i centri di potere: l’abolizione della guerra e la sanità pubblica (senza profitto). Due idee che, a cascata, ne avrebbero generate delle altre: solidarietà, uguaglianza, diritti per tutti (mica privilegi), libertà.
Almeno una canzone, “Jung”, la dedicai al vissuto di quel visionario chirurgo di guerra, uomo di grande intelligenza e lucidità, ma che in fondo come tutti aveva paura, e nella baracca ascoltava Animals dei Pink Floyd mentre fuori infuriavano i combattimenti; un altro pezzo, “Fratelli”, lo scrissi quando venne a mancare sua moglie Teresa.
Cecilia, figlia loro, mentre oggi giungeva la notizia della morte del padre, era lontana, in mezzo al mare, a fare quello che le è stato insegnato: portare soccorso alle persone. Mentre Gino Strada se ne andava — lasciando qui la lista delle cose che restano da fare perché l’uomo possa definirsi tale e quella delle cose che non andrebbero mai fatte — sua figlia Cecilia era impegnata in un salvataggio in mare: una vita andava via lasciando impronte pesanti sulla terra, una nuvola di fumo di sigaretta si alzava in cielo, mentre ottantaquattro vite salivano a bordo.
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