DI LIBRI, SOGNI E CANZONI
Ho scritto molte canzoni, soprattutto fino ai trent’anni.
Ce ne sono alcune che ho etichettato come insulse fin dalla prima stesura, ma che non ho buttato via, pensando a future rivisitazioni, a riscritture più o meno integrali, al recupero delle parti musicali o di qualche verso riuscito. Molte di esse saranno destinate all’archivio forzato con “fine pena mai”, da scontare dentro i raccoglitori, ma hanno rappresentato pur sempre un esercizio. Nonostante le consideri sfrido, capita che ci lavori ancora di lima per eliminare ridondanze e cacofonie — una specie di perversione —, e delle volte ciò mi torna utile.
Il fatto che per scrivere mi sia spesso ispirato a delle opere letterarie ha favorito un certo affinamento delle tecniche, della valigia degli attrezzi, innescando un processo di cura nella scelta delle parole.
Coltivo il piacere della lettura fin da ragazzino, ma è dai vent’anni in poi che si è strutturato e stabilizzato fra le mie abitudini, quando ho conosciuto la letteratura latinoamericana del ‘900, in primis Gabriel García Márquez, del quale credo di aver letto tutto ciò che sia stato pubblicato, e per più di una volta. Ma anche Isabel Allende, Álvaro Mutis, Jorge Amado, Luis Sepulveda. Subito dopo sono giunti Hemingway e Calvino.
La Beat Generation l’ho scoperta con Kerouac, che ho letto a ventuno anni, ma il resto della banda (Ginsberg, Burroughs, etc.) l’ho divorato dopo i trenta; Corso a quarant’anni.
La letteratura degli autori sardi è sempre stata presente, ma c’è stato un periodo intorno ai trentacinque anni dove mi nutrivo esclusivamente di quegli scritti.
Anche la poesia mi ha accompagnato senza sosta, con una varietà notevole e senza alcun ordine (Pascoli, Montale, Pavese, Bukowski, Masters, De Luca, Eliot, Ungaretti…).
Umberto Eco ho cominciato a leggerlo attraverso le bustine di minerva, ma solo a quaranta mi sono innamorato del romanziere, per poi considerarlo eterno da quando affermò che nei social network hanno diritto di parola legioni di imbecilli.
Leggo perché leggere è uno dei viaggi migliori che possa fare, tutto sommato abbastanza economico, e perché consente di accumulare una grande mole di luoghi, visi, amori, sogni e speranze, che difficilmente avrei la possibilità di fare nella vita reale.
Oltretutto, ritengo che fino ai vent’anni faccia bene allo spirito accatastare sogni e speranze; dopo i trenta credo sia terapeutico iniziare un processo progressivo di sottrazione, via via con maggiore intensità man mano che si cresce, fino al raggiungimento dei sessanta. Per “sottrazione” intendo togliere gli elementi di disturbo, i sogni, in quanto divenuti superflui e dannosi al vivere sereno. Fra i venti e i trent’anni c’è un vuoto, infatti a quell’età non occorre essere editor di sé stessi, come sarebbe velleitario esserlo dopo i sessanta, visto l’esito esiziale, allo scadere certo e sempre più prossimo, dell’esistenza.
Ho scritto molte canzoni, soprattutto fino ai trent’anni.
Alcune sono quasi autobiografiche, altre si ispirano a ciò che ho visto, che ho letto nei libri, al sogno, ai ricordi, ai luoghi dell’anima. Oggi mi ritrovo con alcuni quaderni zeppi di testi e di accordi, appunti per tematiche da sviluppare, versi sciolti. E posso permettermi di vivere di rendita, scrivendo solo quando proprio non riesco a farne a meno, magari partendo da qualche frase annotata nei fogli infilati tra le pagine di un libro, con un gesto quasi meccanico.
Thomas Eliot diceva pressappoco che i poeti immaturi imitano, mentre quelli maturi rubano, i cattivi poeti rovinano ciò che prendono, mentre quelli buoni ne traggono qualcosa di meglio, o almeno qualcosa di diverso. Ma io sono cantautore e non poeta, e neppure troppo maturo, quindi posso rubacchiare qua e là, per poi dichiarare che è “liberamente ispirata da…”, in quanto la canzone, specie quella dei cantautori, è di per sé sogno spesso irrealizzabile, ma a cui tendere per mettere in salvo e liberare l’anima.
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