CANZONI DA SOLO
Da un po’ di tempo, sto provando gusto a suonare da solo. Le dita accompagnano le parole e queste riacquistano il peso che ho voluto dar loro quando le ho messe in versi. L’essenziale dà risalto all’essenza della canzone. Oltretutto, posso permettermi di variare alcune parti senza dovermi preoccupare di farmi intendere dai musicisti: sono solo le parole con le corde della chitarra che devono capirsi.
Certo, la parte musicale inevitabilmente si stinge, ma il testo risalta e la canzone torna a essere così com’era appena creata, con pause e velocità proprie dell’anima. Non è un addio ai miei amati musicisti, ma solo una riflessione su quanto ogni tanto faccia bene tornare allo stadio primordiale.
Il coraggio di presentarmi da solo davanti al pubblico me lo infuse un cantautore che ho amato e amo tuttora, Gianmaria Testa, impastato di umanità, di poesia e di jazz. È stato lui a mostrarmi come, senza altri musicisti ad accompagnare la parte musicale, con pacatezza e garbo, si potessero cantare le canzoni con la sola chitarra appoggiata sulla coscia. Ma, divagando, mi insegnò anche la differenza fra vincenti e invincibili. E io vorrei essere un invincibile, quello che prova a rialzarsi e a ricominciare dopo ogni sconfitta.
Ammetto che mi piacerebbe imparare bene a suonare la chitarra, approfondendo il fingerstyle e acquisendo basi di classica. Ogni tanto mi butto su qualche manuale e ci provo, palpando pure dei piccoli progressi, ma ciò che mi frega è la costanza. Eppure — mi dico — sarebbe bello esaltare bene i testi delle canzoni quando mi esibisco da solo: un attento lavoro chitarristico sul piano espressivo e tecnico non potrebbe che giovare, ma di mezzo c’è il mare. E tale atteggiamento, Gončarov lo definirebbe forse «oblomovismo». In qualche modo, mi sono accontentato e adeguato nel dire che non suono la chitarra, bensì la uso, me ne servo per comporre e accompagnare le parole.
La scoperta del suonare da solo mi ha spinto nel 2016 a pubblicare un live in studio, Canzoni da solo, uno scrigno contenente canzoni scritte in tempi diversi, eseguite in presa diretta e con solo voce e chitarra. Probabilmente è nato per una mia esigenza incalzante di quel momento, ma il fatto di averlo realizzato esclusivamente in digitale mi ha appagato quanto aver messo a dimora degli alberi fittizi.
Ovviamente non è scevro di difetti: solo a registrazioni ultimate, quando ci siamo messi all’ascolto per selezionare le canzoni uscite meglio, ho notato alcune imprecisioni. Ad esempio, in “Olio d’autunno” ho detto *càduco e non cadùco, fregandomene dell’accentazione piana, ma d’altronde la ritrazione degli accenti spesso mi sfugge anche nella vita di tutti i giorni.
Per raccontarlo ho deciso insieme a Carlo Murtas, grafico e videomaker, di realizzare un piccolo documentario per far venire fuori con immediatezza il senso del disco.
Luigi Viva, biografo di Fabrizio De André, su Il Sussidiario, l’ha sintetizzato così: “Un momento di riflessione, quasi un distillato di anni di esperienze, un guardarsi allo specchio che evidenzia le indubbie capacità testuali dell’artista. Album che segna un punto di svolta nella sua produzione”.
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