CANZONI ADULTE E RACCONTI GIOVANILI
“Lia e Dio” è una canzone che si ispira a un mio vecchio racconto, o meglio, a un tentativo giovanile di raccontare una vicenda ambientata in un paese immaginario che chiamai Isteddu. La narrazione cominciava con una madre, Lia, che seppelliva i due figli nei primi due giorni di novembre; seguiva una faida sanguinaria, che si sarebbe risolta solo dopo qualche secolo, quando un personaggio chiave della storia si ammazzò per rompere la catena sanguinaria, lasciando in vita il rivale, nonno del narratore. Fra i vari personaggi che popolavano quell’immaginario letterario c’era l’anarchico Niccheddu, con evidenti riferimenti all’autore.
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[…] Il primo figlio di Lia morì il primo giorno di novembre, il secondo figlio il secondo giorno dello stesso mese.
Quando la prima manciata di terra cadde sul viso di Elia, il primogenito, il vento cominciò a soffiare sollevando le foglie arrugginite con le sue mani diafane, trascinandole in un vortice, e continuò così senza sosta finché l’ultimo pugno di terra coprì la fossa di Leo, il fratello minore.
Lia rinchiuse il dolore dentro la prigione dei suoi pensieri di madre e si coprì il capo con un fazzoletto nero come la notte, che non levò nemmeno una volta morta e sepolta.
Tutto il paesino di Isteddu, dal ricco commerciante di corallo al servo pastore dal labbro leporino, dalla prostituta con i seni secchi al parroco, si strinse attorno alle fosse dei due gemelli per due giorni e due notti, senza che nessuno si lasciasse scappare una sola lacrima.
Quando l’alba si prese la luna del quarto giorno di novembre, il suonatore di launeddas si mise a soffiare dentro le tre canne e intonò una melodia talmente straziante che tutti gli abitanti di Isteddu piansero, versando più lacrime loro di quanto non riuscisse a fare il cielo gravido sopra i tetti del paese nel mese di febbraio. Si asciugarono il viso e poi tornarono alla vita di sempre, al presente di allora, ormai certi che il passato non sarebbe più venuto a guastare le loro feste e certe feste a guastare il futuro.
Anche Lia si passò la mano sotto gli occhi verdi di erba di campo e si rese conto che la sua pelle era arida e asciutta come corteccia di sughera. Restò per altri tre giorni di seguito inginocchiata tra i due cumuli di terra, aspettando che Elia e Leo risuscitassero. Ma ciò non accadde.
Concluse che Dio, se esisteva, non si comportava allo stesso modo con tutti gli esseri umani. Schiacciò col piede un verme scuro che sbucò vicino alle gambe e tornò a casa. […]
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Con lo scritto partecipai a un concorso universitario, però — da studente di ingegneria — mi trovai a competere con validi narratori provenienti da facoltà decisamente più formative per un aspirante scrittore. Il risultato fu non essere stato scartato a priori.
Successivamente, inviai il manoscritto a un’importante casa editrice sarda, che mi rispose «Siamo spiacenti d’informarla che non ci è possibile inserire la sua opera nei nostri piani editoriali, in quanto, benchè dignitosa nella scrittura (sciolta ma attenta ai valori fonici), nello ‘sguardo’ (ironico) e nella struttura (riusciti la progressione e il moto circolare), giunge, suo malgrado, “in ritardo”, se così possiamo dire, sembrando un “Passavamo sulla terra leggeri” in veste niffoiana, e corre perciò troppo, per dirla in parole semplici, il rischio del “già sentito”». Il risultato, in questo caso, fu ricevere una risposta.
È curioso come fossi arrivato in ritardo rispetto a Niffoi, senza averlo mai letto. Ma, soprattutto, compresi che sarebbe stato per me più utile dedicarmi alla scrittura di canzoni e magari anche all’esame di Fisica II, che da lì a breve mi avrebbe succhiato la fantasia e altre velleità.
La canzone “Lia e Dio” l’ho scritta molti anni dopo, quando il manoscritto è riemerso da un cassetto.
Quando la notte
prese i colori
case di cenere
segreti rancori
Isteddu
nella tua terra
ho partorito
e qui sottoterra
sepolti due figli di latte materno
immersi nell’acqua del padreterno
cos’altro ancora, ma Lia lo capiva
che, se pure ci fosse, non la sentiva
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