_Appunti dylaniani e dintorni

Appunti Dylaniani e dintorni
Seguono alcuni appunti dylaniani.
Si tratta di riflessioni, note biografiche, aneddoti e divagazioni legati alla figura di Dylan, assemblati grossolanamente e ricuciti dal sottoscritto.

Di Dylan amo moltissime canzoni, ad esempio “My Back Pages”, forse uno dei suoi ultimi pezzi classici di protesta, prima dell’evoluzione verso una nuova poetica farcita di simbolismo. È contenuta in Another Side of Bob Dylan, album che venne registrato in una notte di giugno del 1964; proprio “My Back Pages” fu incisa intorno alle due del mattino e in qualche nota si sente la stanchezza. Io sono legato visceralmente alla versione eseguita per il suo 30° anniversario di carriera al Madison Square Garden di New York che vide Dylan con Roger McGuinn, Tom Petty, Neil Young, Eric Clapton, George Harrison e altri. Mi piacciono anche i fischi di ritorno, non governati, provocati dai mille microfoni sul palco.
Del disco Another Side, Dylan disse: «Non ci sono canzoni che puntano l’indice in questo album. Un sacco di gente fa canzoni dove si punta l’indice, oggigiorno, denunciare tutte le cose che non vanno e così via. Per quanto mi riguarda, io non voglio più scrivere per la gente. Non voglio essere un portavoce». Ah, ma ero molto più vecchio allora, sono più giovane di allora adesso.

Comunque, in definitiva, anche se non so se definitivamente, The Bootleg Series Vol. 5: Bob Dylan Live 1975, The Rolling Thunder Revue è l’album live di Dylan che prediligo. Con tutto quel cerone sul volto urlava la sua rabbia screziata di poesia, anticipando alcune delle canzoni che sarebbero poi finite su Desire, disco che mi sbatte in faccia i miei vent’anni e fece da sigla della mia storia d’amore.
Il doppio CD masterizzato, prestatomi da chissà chi, lo custodisco con gelosia da metà degli anni ’90. È sorprendente l’esecuzione di “Romance in Durango”, canzone a me fin troppo familiare, anche se la conobbi prima tradotta in italiano da De André e Bubola: geniale, nella traduzione, è il ritornello che nell’originale è una lingua fittizia anglo-ispanica e nella traduzione una specie di dialetto meridionale simile all’abruzzese-napoletano.
Disse De André: «Non ho mai conosciuto Dylan personalmente, ma lui mi scrisse una lettera nella quale si complimentava con me per la traduzione di “Romance in Durango”. Bontà sua».

Sarebbe utile pubblicare un’enciclopedia per leggere la storia degli Stati Uniti d’America attraverso l’opera e la biografia di Bob Dylan. Fra le note inserirei gli aneddoti che lo riguardano, nonché i pettegolezzi, solo apparentemente secondari. Un’enciclopedia del genere sarebbe importante anche a livello di educazione e propedeutica musicale, volta allo sviluppo di conoscenze relative alla percezione e alla fruizione musicale, con importanti risvolti socio-culturali.
Penso ciò da almeno trent’anni, quando scoprii Dylan attraverso il mondo che mi presentò lo zio del mio migliore amico di allora. Anche i miei appunti, per non dimenticare, inerenti la discografia dylaniana, pullulano qua e là nei cassetti, nelle custodie delle chitarre e nei quaderni con le prime canzoni giovanili.

Certo che questo vizio di Dylan di suonare note a caso all’elettrica, per lo più disarmoniche e fuori scala, ormai è imbarazzante: i musicisti che lo accompagnano sono bravissimi a camuffare, ma il fonico dovrebbe comprendere che la sua chitarra va tenuta bassissima. La voce gliela perdoniamo.

Mi ha chiesto l’amicizia su facebook Bob Dylan. Dovevo immaginarlo che era un impostore, infatti dopo qualche ora: «Hello there, I’m giving out $20,000.00 ware giveaway to appreciate all the love, support and express my gratitude to my fan’s». Si sa che talvolta Satana viene come un uomo di pace.

Guccini è il narratore della canzone d’autore italiana e De André ne è il poeta, come Dylan e Cohen in America; in Italia pochi altri si districano fra le due specialità, uno fra tutti è De Gregori (stregato dall’opera dylaniana).

Senza motivi razionali mi infastidiscono i cantanti italiani che fanno musica brasiliana, specie se cagliaritani. Non so perché. Invece, un brasiliano nato nello stato di Bahia che reinterpreta “Jokerman” di Dylan mi scosse trent’anni fa: me lo fece conoscere la mia insegnante di canto, Clara Murtas, quando le dissi che avrei voluto acquisire un minimo di tecnica, un’impostazione basilare, per poter cantare dignitosamente le mie canzoni che si accumulavano nei quaderni. Mi disse che la volta successiva avrei dovuto portare la chitarra e farle sentire qualcosa: le feci ascoltare, imbarazzatissimo, “Rom”. Mi regalò una cassetta duplicata, Circuladô Vivo, che consumai: l’ascolto non mi fu utile per imparare quella tecnica inarrivabile, ma per decidere che avrei imparato a cantare parlando.

La voce di Dylan mi piaceva fino agli anni ’80, pressappoco fino a Oh Mercy. Poi è andata riducendosi, distorcendosi, soffocandosi. La perdono per via di quello che dicono le parole e la musica, ancora sublimi. Riguardo la chitarra, ritengo che ora Dylan sia addirittura un pericolo per la band, ma il fonico sa come tenerla a bada, zittendo le acrobazie delle sue dita sulla tastiera. Però resta la poesia a bizzeffe.

“Chimes of Freedom” è una canzone di Dylan del 1964. Se poi Springsteen decide di farla sua in un concerto storico a Berlino Est, nel 1988, davanti a 300 mila persone, un anno prima della caduta del muro, si scrive una bella pagina di storia. Invece oggi ogni speranza sembra negata dai fatti terribili che si consumano, accettati e legittimati, come se la guerra sia l’unica soluzione possibile. A questo servono le canzoni: non scrivono la storia, né la cambiano, ma la sottolineano prima ancora che sia scritta nero su bianco sulle pagine dei libri.
Nonostante conosca “Chimes of Freedom” da tanto, compresa la versione di Springsteen, è da ieri che si è imposta prepotente e non riesco a smettere di ascoltarla. Poco prima stavo analizzando “Via della croce”, le cinque strofe divise in tre quartine, e ognuna che tratta di una categoria dei personaggi toccati nella vicenda: a ognuno il proprio calvario, ma il mio oggi sente le campane della libertà. Inoltre è curioso il sound check dove altri artisti accompagnano Springsteen, e Sting sembra imitarne la voce e lo stile. Tracy Chapman, come sempre, è fantastica, nonostante i fischi del microfono ancora da domare.

Robert Allen Zimmerman ha compiuto 83 anni: forse è stato il musicista che ha influenzato maggiormente tutto ciò che è accaduto nel mondo della musica. A sua volta, egli si fece ispirare da Woody Guthrie. “Sono Bob Dylan soltanto quando devo esserlo, il resto del tempo sono me stesso”.

Il cofanetto che uscirà a breve dei live del 1974 di Bob Dylan con The Band è allettante ed economico: 27 CD, oltre 450 tracce, a soli 130 euro. Però, credo che mi stancherei precocemente di ascoltarlo, e probabilmente ci vorrebbero anni per consumarlo completamente. Ho contato 30 versioni di “Lay, Lady, Lay”, 27 di “Knockin’ on Heaven’s Door”, etc. Quindi resisterò alla tentazione.

Improvvisamente mi è tornato in mente un ricordo alquanto nitido che giurerei non essere falsificato dalla memoria. Ero nella camera doppia in via Ospedale che dividevo con Baco o con T., quasi alla metà degli anni ’90, nel periodo universitario post casa dello studente. In una delle tante mattinate rubate allo studio composi “La venditrice ambulante”, ispirandomi spudoratamente allo stile di Dylan, scimmiottandolo. Negli stacchi inserii l’armonica a bocca per renderla ancor più verosimile. L’indomani la suonai in cucina e un coinquilino mi chiese se fosse una traduzione di una canzone di Dylan.

La differenza fra whisky e bourbon è solo una questione geografica. Pensavo di acquistare una bottiglia di whisky Heaven’s Door Exploration Series direttamente dalla distilleria di Bob Dylan nel Kentucky, con lo stesso spirito di quando acquistai le bottiglie di sangiovese Message in a Bottle, dalla cantina toscana di Sting. Però scopro che la bottiglia più accessibile, Revival Tennessee Straight Bourbon Whiskey, costa oltre 50,00 euro. Mi pare eccessivo per un bourbon — mi dico per placare il desiderio e giustificare la rinuncia —, anche se whisky d’altronde è il nome generico con cui viene chiamato il distillato che si ottiene dalla fermentazione e distillazione dei cereali — indica quello prodotto in Scozia e Canada — mentre bourbon è lo specifico whisky prodotto negli USA, come il Jack Daniel’s, di cui ho abusato in gioventù, attratto più dall’immagine che dal gusto, che comunque apprezzavo.

Bob Dylan fa musica che se ne fotte delle mode da oltre sessant’anni, eppure da sempre fa tendenza nel panorama musicale. È uno degli artisti per i quali si possono prendere una decina di canzoni a caso dal suo paniere composto da cinque o seicento canzoni, con una benda negli occhi e i tappi nelle orecchie, metterle insieme e creare così un The Best of Bob Dylan Vol. XXX.
In effetti ho pensato più volte di fare una mia antologia personale su Dylan per condividerla con qualche amico, ma rifuggo il fallimento certo, per quanto negli anni ci abbia provato a più riprese. Potrei invece assemblare un’antologia da intitolarsi The Worst of Bob Dylan, ma probabilmente sbaglierei lo stesso e poi è forte il timore che una dura pioggia possa cadere su di me.
Quando nel 2016, a Stoccolma, Dylan fu insignito del Nobel per la letteratura, alla cerimonia non ci poté andare — così disse — a causa di ‘precedenti impegni’, e incaricò la sua amica Patti Smith per presenziare. Lei cantò “A hard rain’s a-gonna fall”, capolavoro folk scritto da Dylan nel 1962. Travolta da una valanga di emozioni dimenticò le parole e si interruppe durante l’esibizione, chiedendo scusa al pubblico del Nobel Prize Award Ceremony. Poco prima, nella lettera riparatrice che l’ambasciatore statunitense in Svezia lesse per conto di Dylan c’era scritto: «Non ho mai avuto il tempo di chiedere a me stesso “Le mie canzoni sono letteratura?”».

Beatles o Rolling Stones? Rolling Stones. Pink Floyd o Genesis? Pink Floyd. Deep Purple o Led Zeppelin? Deep Purple e Led Zeppelin. Gilmour o Waters? Non lo so. Page o Blackmore? Blackmore. Mozart o Beethoven? Entrambi. Deledda o Dessì? Deledda e Dessì. Rosso o bianco? Rosso, decisamente. Cohen o Dylan? Entrambi. Brel o Brassens? Brassens. Simpson o Griffin? Entrambi. De André o De Gregori? De André. De André o Guccini? De André e Guccini. De André o altri cantautori? NC.

La prima volta che vidi Bob Dylan in concerto, nel molo di Cagliari, con i gabbiani che tagliavano la seta rosa del tramonto, fu l’estasi. La seconda volta non ci fu mai e mai ci sarà, ma quell’unica occasione l’ho congelata nei miei ricordi e resa perenne, indelebile. Come per la terza e ultima volta che vidi De André, si era a Nuoro, sempre con il cielo che si arrossava nell’attesa dell’inizio.
Al rientro dal concerto di Dylan scrissi “Concerto”. La cominciai a creare durante la sua esibizione. Era l’estate del 2000. Nel foglio col manoscritto, una bella copia piena zeppa di cancellature, c’è attaccato il biglietto d’ingresso. Il testo è ingenuo e istintivo, la musica dimenticabile. Ricordo che molti versi gli appuntai su carte varie racimolate nell’arena del molo Ichnusa.

Il biopic – abbreviazione di biographic motion picture – di Dylan uscirà a breve e mi catapulterò al cinema, affamato come sono di passato, di nostalgie e di orgoglio di essere testimone di un’epoca.

Ieri pomeriggio, insieme a Teresa, siamo andati a vedere il biopic di Dylan, A Complete Unknown di Mangold. Teresa non sapeva cosa aspettarsi, io invece avevo letto molte recensioni e avevo delle aspettative precise. Il film racconta l’inizio della sua carriera, dal 1961, quando il ventenne Robert Zimmerman si trasferì a New York per conoscere Woody Guthrie, e termina nel 1965 quando Dylan, non più uno sconosciuto, imbracciò la chitarra elettrica in un festival prettamente folk. Siamo usciti dalla sala felici.
Mi infastidiscono i suggeritori di film, di libri e di musica, ma la visione di questo film ritengo sia terapeutica, perciò la consiglio a chi Dylan lo conosce e lo ama, a chi non lo conosce affatto e a chi, pur conoscendolo, non lo apprezza. Insomma, dissento con fastidio anche da me stesso.
In fin dei conti il biopic su Dylan sarebbe bello anche se fosse il frutto della sola fantasia dell’autore, anche se Bob Dylan non fosse mai esistito e se quelle canzoni non fossero mai state composte.

Parafrasando umilmente Bob Dylan in The Nobel lecture, una sorta di lectio magistralis, L’Antologia di Spoon River ‘cambiò la mia vita, proprio in quel momento (quando in terza o quarta superiore la lessi, NdR). Mi trasportò in un mondo che non avevo mai conosciuto. Fu come un’esplosione che si dissolveva. Come se fino ad allora avessi camminato nell’oscurità e all’improvviso l’oscurità si illuminasse. Era come qualcuno che mi imponeva le mani’. In seguito trasferii l’amore per Masters a De André, ma ci volle qualche anno prima che succedesse, mentre ascoltavo i primi cantautori. ‘Cantando tu stesso quelle canzoni, ne acquisisci il gergo. Lo interiorizzi. Lo canti nei ragtime blues, nei canti di lavoro, nei canti marinareschi della Georgia, nelle ballate degli Appalachi, nelle canzoni dei cowboy. Cogli le sottigliezze e impari i dettagli’. Poi, per sugellare i legami fra canzoni e letteratura, che gli valsero il Nobel nel 2016, nella Nobel lecture scrisse dei libri che lo colpirono da quando li lesse a scuola: Moby Dick, Niente di nuovo sul fronte occidentale e Odissea. La crudezza poetica con la quale descrive il secondo libro potrebbe essere una sua canzone intrisa di ‘fango, filo spinato, trincee invase dai topi, topi che mangiano gli intestini dei morti […] quella tua gamba sta sanguinando troppo’.

Sanremo mette in gara, come cavalli, pessime canzoni, consentendo numerose incursioni nella categoria della ‘musica di merda’ contemporanea — non si offendano i fruitori. Per chi non ha l’orecchio abituato all’ascolto, risulta difficile scorgere certe nefandezze vestite da splendidi musicisti d’orchestra. Artisticamente è un disastro che luccica: le canzoni, che mi sembrano tutte dei Ricchi e Poveri, sono prevalentemente appiattite verso un livello infimo, lo stesso a cui è stato educato il pubblico. Sono canzoni costruite con metodi intensivi, il cui unico scopo è produrre profitto. Qualcuna raggiunge l’obiettivo e qualche altra no. Chi ci riesce viene definito fenomeno, ma ci si scorda l’essenza semantica di quella parola, ossia apparenza ingannevole, effimera, priva di sostanza.
E pensare che da ragazzo, parafrasando il Dylan di Mangold, avrei voluto semplicemente fare il musicista e mangiare. Oggi fortunatamente mangio, ma non facendo il musicista; diciamo pure che la parabola del musicista è chiusa.

Sono in attesa di ricevere via wetransfer tutta la discografia di Bob Dylan: la scimmia è in agguato. Comincio a strutturare la catalogazione per date di pubblicazione, ma l’attesa mi logora. Mi aspetto 40 album in studio, 17 dal vivo e un po’ di raccolte. Molte cose ce le ho già e alcune mi hanno segnato fin dai vent’anni – penso a Desire che ha fatto da colonna sonora alla mia lunga relazione amorosa. Non ho sensi di colpa: credo di non incidere più di tanto sui mancati redditi di Robert Allen Zimmerman.

La conversione al cristianesimo portò Dylan a scrivere 3 album di canzoni intrise di filosofia cristiana, di redenzione e sermoni accusatori rivolti ai non credenti: Slow Train Coming, Saved e Shot of Love. Il primo dei quali ha sonorità caratterizzate dalla chitarra di Mark Knopfler; è presente il gospel e la musica nera. Anche il produttore, ateo come un mixer, rimase stupito dal fervore religioso, quasi bigottismo, che Dylan sciorinò in quegli anni di rapimento nella storia dei Cristiani Rinati. Comunque, al di là dell’aver disseminato centinaia di perle dal 1962 a oggi, posso affermare che Dylan era già Bob Dylan da The Freewheelin’ Bob Dylan, il suo secondo album, un capolavoro di libero arbitrio.

Caro M., anche se sono in piena scimmia Dylan — ho procurato tutta la discografia in digitale, 40 album in studio, molti dal vivo e un po’ di raccolte —, qualche giorno fa sono rimasto folgorato dalla breve apparizione di Tom Waits in una trasmissione sulla Rai, dove ha recitato una poesia e accennato una canzone sugli ultimi della Terra. Mi ha emozionato e, poco dopo, ho buttato giù una canzone, “La felicità e la grazia”, che si addentra nel tema dei derelitti, con qualche citazione biblica. Parlo dei senza fissa dimora, termine legale, ossia i senzatetto, senza casa, clochard, homeless o barboni. Sarebbe stato un buon pezzo per Girotondo, ma ora è destinato a rimanere isolato, emarginato. Se mai te la farò sentire vorrà dire che l’avrò terminata, imparata, assimilata e non la reputo male.

Negli ascolti compulsivi di questi giorni ho scoperto The House of the Risin’ Sun, album di Dylan del 2022, così è indicato nella mia catalogazione. Ascoltandolo mi sono detto che è stupendo: Dylan, come è nato — voce chitarra e armonica —, che ricanta le canzoni del suo primo lavoro: “Song to Woody” e altre canzoni popolari americane. È sorprendente che la voce sia bella e ricca come una volta — mi sono detto. Poi sono andato a cercare informazioni su questo album, ma non l’ho trovato né sul suo sito ufficiale, nè su Wikipedia, né niente, solo qualche canzone e un LP simile datato 2013, ma non ho più alcuna certezza dell’esistenza del disco, nonostante lo stia ascoltando proprio adesso.

Nel 1997 Dylan disse all’intervistatore: «Non aderisco ai rabbini, predicatori, evangelizzatori e tutto questo. Ho imparato più dalle canzoni che da qualsiasi altra entità. Le canzoni sono il mio lessico. Io credo nelle canzoni». Tuttavia, alla fine del 1978 divenne un cristiano rinato.
L’attrice Mary Alice Artes, sua fidanzata di allora, e la sua corista Helena Springs lo convinsero a entrare in una chiesa evangelica. Da quel momento, per qualche anno, si scatenò il Dylan integralista cristiano e la sua furia iconoclasta. Eppure, in passato supportò un movimento ebraico classico e partecipò a molti rituali ebraici — si dice anche che prestò servizio in alcune sinagoghe. Poco prima di essere assassinato nel 1980, John Lennon scrisse, senza riuscire a terminarla “Serve Yourself”, Servi te stesso, in risposta alla dylaniana “Gotta Serve Somebody”, Qualcuno lo devi servire.

Seguono alcuni appunti attinti nel web e ricuciti dal sottoscritto riguardo la fase integralista di Dylan.
Come detto, nel ‘78, Dylan si lasciò convincere a entrare nella Vineyard Fellowship, chiesa evangelica fondata dal reverendo Ken Gulliksen. Qui ricevette il sacramento del battesimo e frequentò un corso di studi biblici. Un corso intensivo: cinque giorni alla settimana, per sei mesi, Dylan studiò la Bibbia alla “Vineyard School of Discipleship” a Reseda, nel sud della California. Tra il 1978 e il 1981 vivrà quella che definì «un’esperienza di rinascita, quando la gloria del Signore mi ha vinto e mi ha innalzato».
Il suo fervore marchierà a fuoco tre album, quelli della cosiddetta “trilogia cristiana”: Slow Train Coming (1979), Saved (1980) e Shot of Love (1981). Al concerto di Albuquerque, in New Messico, nel 1979, Dylan sentenziò: «Vi dissi: “I tempi stanno per cambiare” e così è stato. Vi dissi che la risposta stava “Soffiando nel vento” e così è stato. Ora vi sto dicendo che Gesù sta per tornare, e così sarà! E non esiste altra via di salvezza. Lo so che qui intorno avete un sacco di persone che vi confondono in mille modi tanto che non sapete nemmeno a cosa credere. C’è solo un modo per credere: c’è solo la Via, la Verità e la Vita. Mi ci è voluto molto tempo per capirlo, spero per voi che ve ne serva molto meno».
In realtà il rapporto con la redenzione, il clima visionario e profetico e il legame con la Bibbia erano presenti già prima della sua svolta cristiana e, seppur con registri diversi, continuarono a esserlo anche dopo. Isaia, Ezechiele, l’Apocalisse, i libri sapienziali, i temi escatologici furono sempre una sua ossessione, sin dagli esordi al Greenich Village. I corsi biblici alla Vineyard School gli fornirono solo i riferimenti scritturistici necessari per padroneggiare la materia e allargare l’esegesi al Nuovo Testamento.
Non c’è dubbio che il Dylan della trilogia cristiana abbia imbarazzato la critica: troppo esplicito, troppo evangelico e appassionato.
Allora, in definitiva, Dylan è inquadrabile come ebreo o come cristiano? Fra gli studiosi più attenti della sua vita si dice che la chiave per capire il rapporto che Dylan ebbe col cristianesimo starebbe nell’appartenenza – mai resa pubblica – all’ebraismo messianico, il movimento religioso d’ispirazione giudeo-cristiana ed evangelicale, i cui membri condividono la dottrina cristiana sulla figura di Gesù che, ricordiamolo, nacque ebreo.

Nel luglio del 1985 Dylan apparve al Live Aid tenutosi al JFK Stadium, accompagnato da due pezzi degli Stones, Keith Richards e Ron Wood. Fra le altre canzoni eseguirono una ruvida versione di “Blowin’ in the wind”. Il suono delle chitarre fu talmente penoso che a un certo punto Ron Wood si sfilò la sua per passarla a Dylan, che la abbandonò lasciandola cadere a terra, ma gli esiti artistici furono nefasti, nemmeno fossero dei principianti: matza bruta.
Io, da giovane, per molto meno scagliai a terra un’asta microfonica, presi a calci la cassa spia, imprecai contro il fonico e la madre surrogata di Gesù, e abbandonai il palco con rabbia e arroganza. E non ero Bob Dylan, come non lo sarei mai stato. Comunque non fui fiero del mio ignobile comportamento, anche se pensavo che fosse solo rock’n’roll.

Bob Dylan, riferendoci al periodo che va dal 1962 al 1966, da quando era Robert Allen Zimmerman, ragazzo ebreo che si diede lo pseudonimo Bob Dylan e fece un disco quasi interamente di cover, pubblicò in rapida successione The Freewheelin’, The Times They Are a-Changin‘, Another Side of Bob Dylan, Bringing It All Back Home, Highway 61 Revisited, fino a Blonde on Blonde. Fu uno che bruciò la candela da entrambe le parti, per usare la bella immagine di qualcuno dei suoi tanti biografi. Poi arrivò il misterioso incidente (molto o poco grave? disintossicazione? necessità di stacco?) e gli album a contenuto religioso, specie di sermoni reazionari, ma musicalmente decisamente interessanti.
È evidente che lo studio della biografia dylaniana e gli ascolti compulsivi della sua discografia mi stiano dilaniando. E da ateo, paradosso, mi affascina particolarmente quel periodo della sua infatuazione radicale ai Cristiani rinati, in seguito contraddetta dall’uscita di Infidels. Mi fa molto sorridere che Mark Knopfler, anch’egli ateo, si sentì a disagio a suonare con lui in quella fase della vita di Dylan.

I conflitti generazionali ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Faccio un’ipotesi in merito, non supportata da studi sociologici: quando si è giovani si crede che quella condizione sia eterna, mentre quando si è vecchi si dimentica come si era quando si era giovani. Da adulti c’è un periodo di riconciliazione con le due età estreme, ma si fa avanti la consapevolezza che giovani non lo si sarà mai più, mentre vecchi lo si diventerà sicuramente e presto, e da lì la fine dei giochi.
May you stay forever young, che tu possa restare per sempre giovane, cantava Bob Dylan.
Ah, but I was so much older then, I’m younger than that now, Ah, ma ero molto più vecchio allora, sono più giovane di allora adesso.

Sabato mattina, in attesa dell’arrivo dei sintomi ritardati dell’interferone ho ascoltato alcuni album di Dylan, alcune cose non le avevo mai sentite; poi ho preso il mio librone coi testi, Lyrics 1969-1982 di A.Carrera e ho letto in ordine cronologico tutti i testi della fase ‘Cristiani Rinati’.
Ho fatto una pausa per andare a passeggio e ingannare la risalita dei sintomi. Quand’ero in zona Parco si è fermato l’amico S. con la sua apixedda, quindi sono montato su e siamo andati a casa sua; abbiamo bevuto un caffè e parlato delle nostre rispettive vite, ho rifiutato l’involucro che voleva darmi, infine ce ne siamo andati ciascuno per la propria strada, lui a potare gli olivi e a decespugliare l’orto di famiglia, io a studiare e ascoltare Dylan.
Ho inviato a M. la traduzione di “Property of Jesus” perché volevo che capisse questa storia dei Cristiani rinati e ho messo su Oh Mercy.

All’inizio del 1969 Dylan si era ritirato con la famiglia in una casa in campagna a Woodstock, allontanandosi dalla controcultura e dal movimento pacifista; musicalmente si staccò anche dal folk e non era per niente interessato alle nuove tendenze musicali, quali i Velvet Underground e i Grateful Dead.
Per comporre e registrare il nuovo album, Nashville Skyline, si recò a Nashville, ma oltre allo stile anche la voce era cambiata, sviluppato un timbro baritonale: Dylan raccontò fosse stato generato dall’aver smesso di fumare. Era sempre più frustrato dalla mancanza di privacy. Traslocare con la famiglia in campagna non era bastato a far desistere i suoi fan più accaniti dal cercare di introdursi nella sua proprietà molestando lui e il vicinato. «I vicini ci odiavano. Per loro, non ero altro che un carrozzone carnevalesco». La paternità cambiò le sue priorità. Sposato e con tre figli, era all’epoca interessato a prendersi cura della famiglia e a tenersi fuori dai tumulti politici e di protesta sociale che pervadevano l’America alla fine degli anni ‘60.

Recentemente ho trovato sul web alcune riprese video e audio del concerto di Dylan a Cagliari, al quale assistetti nell’estate del 2000.
Sono convinto di ricordare l’arrangiamento di “Blowin’ in the Wind” e possiedo una versione dal vivo che ricalca la mia memoria, però non capisco da quale bootleg provenga.
“My Back Pages” non ricordavo che l’avesse eseguita, ma ora capisco perché dica che quella è una delle mie canzoni preferite. Sotto il video su YouTube, con immagine fissa, sta scritto: June 2, 2000 Bob Dylan & the 12th Never-Ending Tour Band performed at Molo Ichnusa in Cagliari, Italy. Listen here to an audience recording of Bob Dylan’s song “My Back Pages”. Bob Dylan (vocal & guitar), Charlie Sexton (guitar), Larry Campbell (guitar, mandolin, pedal steel guitar & electric slide guitar), Tony Garnier (bass), David Kemper (drums & percussion).

Shadow Kingdom è nato come evento in streaming nel 2021. Non è un disco dal vivo, nè una raccolta di inediti, nè riproposizioni di classici. È solo Dylan che fa spettacolo del tempo che passa (scrisse Rolling Stone), sicuramente non il concerto che ci si aspettava, bensì un video in cui Dylan e alcuni musicisti-attori con le mascherine contro il Covid-19 mimavano nuove registrazioni in studio, figlie di quell’impulso all’evoluzione costante che ha modificato anche il suo modo di scrivere canzoni e fare dischi da Time Out of Mind in poi, ma a dire il vero da molto prima.

Dunque, possiamo considerare Infidels come il ritorno di Dylan a tematiche laiche. Eppure la traccia di apertura è “Jokerman”, canzone che conobbi vent’anni fa nella splendida versione di Caetano Veloso. Secondo alcuni critici è una canzone di protesta contro una sorta di anticristo; secondo altri il “Jokerman” della canzone rappresenta la figura di Gesù Cristo, trattato come un impostore, un ciarlatano e un buffone all’epoca della sua venuta. “Blind Willie McTell”, considerato uno dei migliori pezzi di Dylan, fu escluso da Infidels e pubblicato solo otto anni dopo su The Bootleg Series Volumes 1–3. Fede mutata, convertita, ritrovata o abbandonata, le citazioni bibliche continueranno a essere un segno distintivo della scrittura in musica di Dylan. Il disco lo produsse Mark Knopfler.
Molti anni dopo, a produrre i suoi lavori arriverà Jack Frost, Bob Dylan in persona sotto pseudonimo.

Anche se ho l’intera discografia di Dylan, oggi ho deciso di acquistare The Bootleg Series Vol. 16: Springtime in New York 1980–1985: fa parte della serie Bootleg Series e include outtake degli album Shot of Love, Infidels, Empire Burlesque, nonché vari brani provati durante le prove concerto.
Considero le raccolte Bootleg Series fondamentali per la comprensione dell’opera e dell’artista Bob Dylan. Ma ora devo darmi una calmata perché questa passione, una scimmia, sta sfociando nel feticismo.

I prossimi libri che devo assolutamente comprare sono: Una vita con Bob Dylan di Riccardo Bertoncelli (quello di ‘un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate’), Chronicles. Vol. 1 di Bob Dylan e Lou Reed: Il re di New York di Will Hermes.

Ora ho tutto, o quasi tutto, il materiale discografico di Bob Dylan. Sto facendo innumerevoli ascolti e naturalmente mi soffermo, mi incaglio proprio, su alcuni album che prima di altri hanno catturano la mia attenzione. I dischi della fase Cristiani Rinati li ho sentiti e risentiti, approfondendo gli aspetti legati alla loro genesi e produzione, e non nego che mi abbiano segnato. Rimuginando sulla mia determinazione materialista di appropriarmi di tutta l’opera dylaniana, vera e propria brama, anche se un terzo lo possedevo da trent’anni, è affiorato, come una parabola, il monito di San Paolo: «Non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla potremo portarne via. Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo.». (1 Timoteo 6:7-8)

Non esistono concerti uguali di Bob Dylan, sia riguardo la scaletta che gli arrangiamenti. Per Dylan, infatti, come ha detto lui stesso, «le canzoni che ho registrato non sono la forma definitiva, sono solo un canovaccio da cui partire per intraprendere nuove strade».
A differenza degli album in studio, i dischi dal vivo non sono tanti e, a parte i corposi Bootleg Series, si fermano al 1995, quando uscì Mtv Unplugged. Alcune delle peggiori recensioni della sua carriera le ricevette per Bob Dylan at Budokan, registrazione che proviene da due diversi spettacoli tenuti al teatro-area Nippon Budokan di Tokyo, nel 1978. Non so se le aspre critiche si riferissero alla qualità audio delle registrazioni, alla performance o agli arrangiamenti spiazzanti.

Un modo efficace, ma effimero, per tenere a bada la scimmia Dylan che mi sta aggrappata sulla schiena in questo periodo è ricadere in altre scimmie mai domate: ascolto Keith Richards e Eric Clapton in “Key To The Highway”.
Però c’è una fila enorme di Primati che aspetta il proprio turno per risaltarmi addosso. I più subdoli e pazienti sono i miei amati cantautori, quei due o tre che mi attendono al varco.

“Visions of Johanna” è una canzone di Dylan contenuta in Blonde on Blonde, il primo doppio album della storia, datato 1966 — l’ultimo è del 2022, uscì in digitale e si intitola Di un cantautore e d’altre storie, ma Dylan non c’entra.
Nel testo di Johanna affiorano due donne: la carnale Louise e Johanna l’immacolata. Joan Baez, che assisteva al concerto in cui Dylan la eseguì, vi trovò dei riferimenti alla loro passata relazione, ma forse Dylan si riferiva alla donna che stava per sposare, oppure a un’altra partorita dalla fantasia, o addirittura a Giovanna D’Arco.
Come ogni canzone, anche questa è aperta all’interpretazione, ma il tema generale, coerente, è che dentro ognuno esista, o sia esistita, una versione idealizzata dell’amore che non sempre combacia con l’amore realmente vissuto. La vita e l’esperienza insegnano ad accettare che l’amore e le relazioni non corrispondono alla nostra fantasia: un rapporto di coppia porta in sé una sorta di lotta latente, la dualità del poeta romantico e del filosofo logico. Il narratore sta con Louis (versione reale dell’amore), ma Johanna è ciò che lui desiderava (versione idealizzata dell’amore). Johanna potrebbe essere un’altra donna o anche la versione di Louis che lui pensava che fosse — o che voleva fosse stata. Il narratore (probabilmente coincidente con l’autore) è una persona che riflette sulla delusione causatagli da una relazione che è diversa da quella che aveva immaginato e idealizzato. Letteratura a bizzeffe e influenze poetiche: Louise tiene un pugno di pioggia.

Come un aedo, anche Dylan è stato cantore del suo tempo. Uno dei suoi tanti poemi si intitola “Murder Most Ful”, datato 2020. Quasi 17 minuti per svolgere il tema sull’assassinio di John F. Kennedy.

La copertina di The Freewhelin’ è la foto più famosa di Bob Dylan e Suze Rotolo. Quella storia d’amore incorniciò i primi anni Sessanta tra romanticismo, arte e impegno politico. Suze Rotolo, allora diciasettenne, iniziò il ventenne Dylan alla politica che guardava a sinistra, ai diritti civili, nonché a certa poesia e alla pittura. Resta quella foto impressa nella copertina di un disco che sarebbe diventato un monumento all’eternità di Dylan e a quell’amore giovanile che cambiò la storia della musica e influenzò quella che si scrive ininterrottamente.

“Series of Dreams” è una canzone registrata per l’album Oh Mercy del 1989, uno dei più belli. Però il pezzo fu escluso e comparì come outtake, traccia esclusa dalla versione definitiva, in uno dei suoi bootleg ufficiali. Intanto, ieri notte ho sognato che B.J. mi minacciava perché, con spirito altruista, lo mettevo in guardia su un abuso edilizio che si stava apprestando a realizzare, e in fondo alla strada, ero in via Santa Barbara, intravedevo un uomo, era Bob Dylan. La mia serie di sogni…

Personalissimo promemoria per l’ascolto ragionato degli album in studio di Bob Dylan:
1962 – Bob Dylan: acustico, chitarra e armonica a bocca, cover e Woody
1963 – The Freewheelin’ Bob Dylan: monumento
1964 – The Times They Are a-Changin’: chitarra e armonica, manifesto canzone politica e di protesta
1964 – Another Side of Bob Dylan: in viaggio negli USA, “My Back Pages”
1965 – Bringing It All Back Home: inizio fase elettrica, stile narrativo surreale, “Mr. Tambourine Man”
1965 – Highway 61 Revisited: “Like a Rolling Stone” e “Desolation Row”
1966 – Blonde on Blonde: primo doppio album della storia, “Visions of Johanna”
1967 – John Wesley Harding: post incidente, ritorno all’acustico, “All Along the Watchtower”
1969 – Nashville Skyline: ritiro campagna Woodstock, country, Johnny Cash, voce cambiata
1970 – Self Portrait: critiche negative, più traduzioni che tracce originali
1970 – New Morning: George Harrison, “If Not for You”
1973 – Pat Garrett & Billy the Kid: colonna sonora, “Knockin’ on Heaven’s Door”
1973 – Dylan: senza autorizzazione, utilizzo scarti e provini di Self Portrait e New Morning
1974 – Planet Waves: The Band, “Forever Young”
1975 – Blood on the Tracks: cofanetto, “Tangled Up in Blue”, “Shelter from the Storm”
1975 – The Basement Tapes: cantina pressi Woodstock di alcuni membri di The Band
1976 – Desire: monumentale e legato personalmente al sottoscritto
1978 – Street Legal: black music, gioco d’azzardo e tipo figo
1979 – Slow Train Coming: Cristiani Rinati 1, Mark Knopfler
1980 – Saved: Cristiani Rinati 2, sermoni
1981 – Shot of Love: Cristiani Rinati 3
1983 – Infidels: ritorno alla musica laica, prodotto da Knopfler, “Jokerman”
1985 – Empire Burlesque: suono anni ottanta
1986 – Knocked Out Loaded: Tom Petty, registrazioni troppo frettolose
1988 – Down in the Groove: recensioni negative, pochi testi e musiche di Dylan
1989 – Oh Mercy: monumentale, nuove sonorità (quelle che prediligo)
1990 – Under the Red Sky: stupendo nonostante la critica negativa
1992 – Good as I Been to You: completamente acustico, solo canzoni folk tradizionali e cover
1993 – World Gone Wrong: completamente acustico, solo canzoni folk tradizionali e cover
1997 – Time Out of Mind: rinascita, stupendo, “Not Dark Yet”
2001 – Love and Theft: rinascita, stupendo, Jack Frost, “Mississippi”
2006 – Modern Times: stupendo, rock-blues- rockabilly
2009 – Together Through Life: Jack Frost, rock-blues- rockabilly
2009 – Christmas in the Heart: cover natalizie in chiave folk-blues-country
2012 – Tempest: “Tempest”, “Roll On John”
2015 – Shadows in the Night: cover standard pop portate al successo da Frank Sinatra
2016 – Fallen Angels: standard pop americani
2017 – Triplicate: album triplo, repertorio tradizionale americano
2020 – Rough and Rowdy Ways: Kennedy
2023 – Shadow Kingdom: evento in streaming del periodo Covid-19

©2025