“L’intossicato misura il tempo con la droga. Quando viene privato della droga, l’orologio si scarica e si ferma. Egli non può fare altro che rassegnarsi e aspettare che ricominci a scorrere il tempo senza droga. L’intossicato in preda al malessere della mancanza di droga, non ha scampo dal tempo esteriore, non ha luogo in cui rifugiarsi. Può soltanto aspettare.”
William S. Burroughs
Sono nato nel 1973 in Sardegna e nel pieno degli anni ottanta ho trascorso la mia adolescenza, per poi affacciarmi nei novanta in attesa della comparsa del nuovo millennio.
Ricordo le gocce che si staccavano dalle nubi per sposare i vetri delle enormi finestre dell’aula della prima elementare. Più che finestre parevano quadri impressionisti, con i tetti delle case schiacciati dal cielo striato dal fumo dei camini. E noi, ragazzi e ragazze degli anni settanta, soffiavamo sopra a quelle superfici appannate, per scarabocchiare l’alfabeto della vita che ci aspettava di fuori. Amicizie, amori, trasgressioni, voglia di libertà, di distinguersi dalla massa e di dimostrare a sé stessi che si valeva qualcosa o che si era disposti a tutto, persino a morire.
Mode e correnti giungevano sempre in ritardo rispetto alle regioni del continente italiano e difatti, con qualche differimento, arrivarono anche le droghe pesanti (o meglio, c’erano già da qualche anno e stavano intaccando i ragazzi della generazione precedente alla nostra, ma non lo si capiva).
Una volta approdate nell’isola fecero le loro piccole silenziose stragi, con un picco negli anni ’80 riguardante l’eroina, ora nuovamente di moda. L’argomento tossicodipendenza toccò tutti quanti, più o meno direttamente, e forse fu anche una questione di fortuna l’esserne usciti indenni, senza troppi strascichi.
Nel tempo ho scritto diverse canzoni che affrontano la questione, spesso immaginifiche, ma che attingono a piene mani dal mio passato conficcato come una scheggia nella carne, strappando i volti per appiccicarci maschere e renderli irriconoscibili. Qualcuno si salvò, qualche altro si salvò morendo, altri ancora, non più ragazzi, vagano dentro e fuori quella specie di limbo.
Dovendo lavorare oggi a un concept sulla tossicodipendenza, probabilmente ambienterei la storia nel bosco di Rogoredo a Milano e lo dividerei in stanze, in ambienti costretti e limitati, divisi l’uno dall’altro da robuste pareti. Pareti, per estensione del termine, da intendersi come muri mentali delle prigioni in cui abitano i protagonisti o dove la società li rinchiude per toglierseli di torno.
La prima canzone che tratta il tema droga, per lo meno una delle prime, è “Beatrip”: non conservai il testo e non ricordo minimamente la parte musicale; ho una vaga e confusa immagine di quella ragazza che abitava nella periferia sud-ovest di Roma, che frequentai per poche notti agostane di troppi anni addietro, della quale si parlava nella canzone perduta.
Poi, ne seguirono molte altre, più salde nella memoria e rinchiuse nei quaderni accanto alle chitarre.
“Portacenere”, 1994: E domani, incatenato dalla nostalgia / ti immaginerò naufrago in questa melodia.
“Per la strada”, 1995: Per la strada incontrai un ragazzo drogato / spiegò, con la morte ho fatto un patto / mi mostrò le braccia, questa è la mia scelta / muoio un po’ ogni giorno, poco a poco / e tu invece tutto d’un colpo.
“Per un amico”, 1995: Qualcuno mi ha detto / che ti hanno visto / bucarti le braccia / in un gabinetto.
“Giuly”, 1995: Giuly ora dorme / il suo letto come una fortezza / protetta dalla tentazione / una ferita nella mente.
In “Rumoroso silenzio”, del 1995, ci sono alcune comparse rappresentate da delle bestie, come la scimmia sulla schiena, somigliante a quella di cui scrisse William Burroughs, l’avvoltoio e il coccodrillo (quest’ultimo si riferisce alla desomorfina, nota anche come crocodile drug): Si è presa la luce / che brillava nei tuoi occhi / la scimmia sulla schiena / che decide i pensieri.
Di questo pezzo, Michele Uccheddu fece un arrangiamento sperimentale con la musica elettronica.
“Brutte compagnie”, 2001: Pino si buca da qualche anno / e rincorre l’orizzonte / quando prova a smettere / lo bracca la paura.
“Ada senza colore”, 2007: Un vomito di vita / che lascia accasciato / arriva Ada senza colore / ti stringe a sé senza più colore.
La più ermetica di tutte, “Favola metropolitana”, la scrissi nel 2010 e la inserii nell’album Girotondo: Quando il mugnaio s’impiccò / il bambino con la barba / fumava cristalli di crack / sulle scale del metrò.
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